“Apri gli occhi” sta dicendo il vecchio.
“È tempo, ormai. Apri gli occhi.”
La donna obbedisce e trova il suo vecchio sé in piedi sopra di lei, il sole del mattino appollaiato sulla spalla. Tutto ciò che desidera è richiuderli per stare con il marito in quel luogo in cui lui le è parso così concreto, non l’ombra di sempre. Quando il sonno è il solo piacere, perché svegliarsi? Quando l’oggi è dolore, perché il domani? C’è un buco nel suo cuore, là dove prima c’era il sogno. Vorrebbe tornarci, dissolversi al suo interno, sparire nei suoi passati. Lì c’è tutto quello che vuole. Il futuro offre solo un grigiore informe. Finché continuerà a procedere lungo una strada di infelicità, il suo termine sarà sempre uguale; ogni passo segue il precedente. Spostarsi di lato, voltarsi, rinunciare alla rotta intrapresa e cambiare completamente direzione: sarà questo a modificare il terreno del domani. Non vi è predestinazione alcuna, nessuna destinazione. Ci sono semplicemente percorsi e possibilità che si estendono in infinite direzioni, in attesa di essere esplorati. Questo è ciò che le dice il vecchio.
“Possiamo andare nel futuro?” gli chiede, incredula.
“Possiamo andare in un futuro” la corregge, e con queste parole la conduce di nuovo nel lago che contiene il tempo nella sua totalità.
…
Il posto è butterato di crateri. Gli edifici sono slanciati e asettici, la terra trasuda infezioni. Vivo dentro un ospedale ma sto bene; sono chirurgo. La guerra è un pianificatore automatico efficiente: fa in modo che nessun letto rimanga vuoto a lungo. Aspetta di vederci dormire per fare del suo peggio nell’oscurità. Poso le mani sui pazienti per far uscire le tossine dall’interno. È complicato rimuovere dal flusso sanguigno le sostanze tossiche frutto della guerra, ma più ostinata ancora è la chimica della paura. Possono essere ugualmente fatali, ed è inutile disarmare le prime mentre si lascia che l’altra guadagni terreno. I corpi non vengono più aperti, anestetizzati, fecondati. Adesso la gestazione dei bambini è esterna. Ed è una cosa che non capisco: se siamo avanzati al punto da riuscire a creare la vita, perché non possiamo progredire fino al punto di smettere di distruggerla? Ci battiamo senza posa per salvare vite, mentre altri lo fanno con altrettanto impegno per terminarle.
Il genere umano è scientificamente evoluto quanto spiritualmente primitivo: un ibrido pericoloso. Accanto a me c’è un altro medico. I suoi capelli sono rossi come la voglia che gli segna una guancia. Le mie mani riposano sul corpo di una paziente, le sue mani sopra le mie. La nostra luce si combina per riaccendere le sue cellule. Lo amo di un amore silenzioso e fraterno, allo stesso modo in cui amo i miei pazienti, allo stesso modo in cui amo persino quanti diffondono il loro veleno sulla Terra, benché costoro, terrorizzati dai danni che potrebbero subire, non lascino alcuna via di accesso all’amore. Una delle mie pazienti è soltanto una neonata, troppo piccola per tenere testa al veleno. La guerra si è impossessata della sua esile vita e adesso è venuta a reclamarne la morte. Come medico sono stata addestrata ad accettare il fatto che, a volte, il corpo umano combatta contro se stesso.
Ma quando è la mente umana ad andare fuori strada – quando considera un neonato come un possibile obiettivo – be’, che tipo di formazione può prepararti a una cosa del genere? C’è anche un bimbetto – nemmeno cinque anni – che reca impresso il trauma su tutto il viso. Con le mani cerco di cancellare le sue parole, di sostituirle con una storia tutta nuova in cui gli unici soldati sono fatti di plastica e finzione. Tutte le volte in cui mi è possibile, sgattaiolo nella sua stanza e mi siedo di fianco a lui perché si rilassi fino a dormire. Riesco a vedere il suo cuore anche senza guardarlo. È puro, color pastello. Non ho mai visto gli occhi di mia figlia mai nata, di mia figlia perduta nel fuoco, ma sono questi stessi occhi. So anche questo, senza dover guardare. Risalire dall’acqua è una lotta; la disperazione del futuro grava come un macigno sulla donna. Per un breve istante, considera l’idea di lasciare che la porti a fondo. Suo marito le ha assicurato che non c’è nulla di cupo nella morte, ma nessuno può garantirle la stessa cosa nella vita.
“La guerra si evolve in qualcosa di molto sofisticato. D’altra parte, lo stesso fa la guarigione.”
Il vecchio indica l’arpa. “È stato saggio portare le tue doti con te.”
“Ero un medico, non una musicista.”
“Dov’è la differenza? Solo nello strumento di guarigione. I corpi su cui suoni sono fatti di tessuti e nervi, invece che di seta e salice. Accordi cellule, anziché corde. Le fai vibrare entrambe armoniosamente. Sai già come creare una luce bianca con la musica. Presto sarai in grado di farlo anche senza.”
La donna allarga le braccia sul lago, spianandone la superficie, tastandone le profondità in cerca del bimbetto spaventato per il quale aveva provato a inventare una favola. Per quanto esplori, però, per quanto scandagli, le dita non hanno presa su quello spirito sfuggente. A ogni vita sembra farsi sempre più elusivo, sembra nuotarle sempre più distante. Non è più il suo bambino: è ancora un suo paziente, ma è il figlio di qualcun altro.
“Tu eri sua madre” le dice il vecchio. “Semplicemente, lo eri in un modo diverso.”
“E la neonata? Mi era così familiare, anche se non riuscivo a ricordarmi dove l’avessi vista. Se non era la stessa anima della bambina che ho perso in questa vita, allora chi era?”.
A questa domanda la giumenta solleva il capo, guarda negli occhi della donna, attende l’agnizione.
…
La donna dice: “Il futuro non mi piace granché.”
“Allora cambialo” replica il vecchio.
“In che modo?”.
“Cosa vuol dire, in che modo? Non è un enigma. Componine uno nuovo.”
La guerra avanza tumultuosa. La neonata muore, così come il bimbetto. Non riesco a salvarli. Non ho nulla da offrire; la mia luce è fragile e fredda. Le finestre dell’ospedale sono sigillate e le tossine non ci possono raggiungere, anche se sento che devono averlo fatto comunque. Cos’altro potrebbe spiegare questo strano dolore che ho dentro e che mi spegne lentamente? I colleghi mi offrono il loro aiuto, ma io non lo accetto. Che senso ha vivere solo per guardar morire dei bambini? Non mi lasciano più mettere le mani sui malati. Il mio tocco è troppo plumbeo. Li renderebbe soggetti al trauma, all’infezione del dolore. Il vecchio scuote la testa. “Direzione sbagliata”. La guerra avanza tumultuosa. I pazienti rispondono alla mia medicina. Una notte, il dottore dai capelli rossi mette le sue mani nelle mie, invece che sopra. Fuori dalle finestre la gente si ammazza. Tra le nostre pareti la gente muore. Io, però, sono stata appena riportata in vita. E pensare che mi è stato accanto per tutto il tempo; non ho mai saputo cercare l’amore sepolto sotto la guerra. La neonata sopravvive, anche se non molto a lungo. Il bimbetto mi chiama Mamma.
“Come ti sembra la felicità? Perché insistere sulla guerra? Ti fa così paura la pace?”.
Poso le mani sul bambino. Il suo sangue è forte e pulito come l’aria che si riversa dalle finestre aperte. Per quanto io cerchi di guardare fuori, sembra proprio impossibile, perché i fiori mi confondono la visuale. Oh, rivedere i fiori! Il dottore dai capelli rossi è accanto a me e io gli bacio la voglia sulla guancia, sul punto una volta toccato dal fuoco. Lo amo malgrado questa macchia. Lo amo per via di questa macchia. Mi chiede se sono pronta. Pronta per cosa? Per andare fuori, naturalmente. Il mondo è lussureggiante e verde e fertile, e gli unici letti di cui mi prendo cura sono fatti di rose. Il bambino mi si sdraia in grembo. Sradico un ranuncolo e glielo adagio sotto il mento, e lui è raggiante perché non ha mai conosciuto un giorno di terrore in vita sua. La piccola è cresciuta in salute, adesso è una bella bimba. Corre tra i campi, corre e corre, gira su se stessa e balla, le braccia in alto per la gioia. Le sue gambe sono piccole, arcuate dalla tenera età, come minuscole forcelle.
Cade e ride, si rialza e scappa via di nuovo. Corre verso il sole, cercando di afferrarlo senza mai riuscirci… La donna galleggia. Non potrebbe rimanere sott’acqua nemmeno se ci provasse. Non ha perso la figlia mai nata: l’ha trovata in un bambino che splende di ranuncoli e stupore. La sua giumenta è lì, come suo marito. Lui c’è sempre. Le acque vitree del lago sono un prisma che lo rifrange ovunque guardi. Com’è insensato compiangere un solo corpo quando sa che le sarà restituito sotto innumerevoli altri corpi. Morte non vuol dire perdita: è semplicemente la possibilità di amarsi l’un l’altra in mille forme differenti. Aveva ragione: non c’è futuro senza di lui. Ma adesso quelle parole hanno assunto un altro significato.
Questa era stata la sua paura: che, pur essendo tornato da lei ancora e ancora nel passato, potesse infine decidere di non farlo più. Che potesse toccarsi le bruciature sulla guancia e trovarle troppo dolorose. E che potesse trovare dolorosa anche lei. Questo era stato il suo peccato: le ferite non erano iniziate con il fuoco. Più di una volta aveva nutrito serpenti in seno – parole taglienti, sconsiderate, meschinità di ogni sorta nelle forme più untuose –, scivolati poi dalle sue labbra per morderlo. Come può la stessa bocca essere usata per baciare e per ferire? Aveva acceso la candela per amore, perché il marito potesse farsi strada nella notte. Aveva acceso la candela e sbattuto la porta, e la conseguenza, benché tragica, era stata accidentale. Le ferite vere sono già state perdonate. Più e più volte.
Lei lo punge con un commento brusco. Lui la trafigge con la lancia del tradimento. Lei accende il fiammifero, lui va in fiamme. Gli amanti imparano un centinaio di modi per ferire, per sfregiare: con le armi e con le parole (o con la loro assenza). Hanno ricchi arsenali personalizzati. Intraprendono guerre interminabili che poi rinfocolano. Eppure, anche i più incattiviti si sorprenderanno a guardarsi l’un l’altro da dietro finestre traboccanti di fiori. La donna e il marito avrebbero potuto facilmente trasformarsi in nemici, con tutte le ferite che si erano inflitti. Invece, sono diventati l’uno il medico dell’altra.
Eccola di nuovo tra le sue braccia, nel futuro, in tutti i futuri a venire, come se la morte non li avesse mai districati. I secoli passano, passano i corpi, ma senza effetti duraturi. È come se lui la tenesse tra le braccia mentre lei si addormenta, per poi riscoprirsi al risveglio, dopo la separazione notturna, ancora una volta nel suo abbraccio. Ostinarsi a rimanere in un sogno e in un passato significa chiudere gli occhi alla luce del sole che attende. Domani – adesso lo sa – non è qualcosa da cui fuggire o da scartare o da rimuovere. È il punto verso cui corri, ruotando, danzando, le braccia tese per la gioia. È la cosa che provi ad afferrare senza mai riuscirci.
Tratto dal libro "Crescendo" di Amy Weiss
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